Sedicianni fa il Ruanda chiese time out alla storia, si allontanò dal parquet della razza umana e per cento giorni macellò la sua gente negli spogliatoi dell’inferno

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Sedicianni fa il Ruanda chiese time out alla storia, si allontanò dal parquet della razza umana e per cento giorni macellò la sua gente negli spogliatoi dell’inferno. Il 6 aprile di sedicianni fa un missile terra aria abbattè l’aereo del presidente Juvénal Habyarimana. Il giorno dopo i machete degli hutu diedero vita a una delle pagine più aberranti della storia umana. Qualche considerazione….

Era la la primavera del 1994 e l’Africa festeggiava una delle sue pagine più felici: in Sudafrica l’apartheid veniva bandito per sempre, tornava la democrazia, andava al potere Mandela. Johannesburg pullulava di giornalisti accorsi da ogni parte del mondo, come accade solo per un Olimpiade. Il sette aprile, i primi lanci d’agenzia dal Ruanda, contraddittori, confusi, superficiali. A Johannesburg ci sono tutti i ‘professionisti’ dell’Africa come il tedesco Grill o il polacco Kapuscinski ma nessuno di loro coglie la gravità della situazione. La liquidano tutti come una faida tribale. Scrive Grill: ” …le prime immagini televisive dei massacri furono talmente colossali, talmente inconcepibili che i commentatori parlarono di un ‘traviamento della natura’, di un accesso sanguinario, di una maladie de tuer, una malattia dell’uccidere – come se il genocidio fosse un virus propagatosi in Ruanda. Io, a 3000 chilometri dal luogo dell’accaduto, ricorsi a un’insulsa formuletta bellum omnium contra omnes. La guerra di tutti contro tutti. E’ qualcosa che funziona sempre quando non si conoscono i fatti”.

I ‘professionisti’ dell’Africa avrebbero dovuto ricordarsi il monito di Paul Morand: ‘La storia, come un idiota, meccanicamente si ripete’. Avrebbero dovuto ricordarsi la rivolta contadina del 1959, quando gli Hutu rovesciarono i Tutsi al potere. Il paese fu messo a ferro e fuoco, il bestiame Tutsi sterminato in massa, e i Tutsi massacrati a decine di migliaia. E ancora: i ‘professionisti’ dell’Africa avrebbero dovuto ricordarsi i massacri del 1963 e del 1965, quando i machete degli Hutu sventrarono quasi 50.000 Tutsi. E i centomila Hutu sterminati in Burundi dai Tutsi al potere. Altro che maladie de tuer. Quello che accadeva nell’aprile del 1994 in Ruanda era stato pianificato già da tre anni, una soluzione finale cominciata col rafforzamento dell’esercito che da 5000 unità fu portato a 35.000, un esercito armato e addestrato dalla Francia di Mitterand. Tre anni in cui si addestrarono gli squadroni della morte degli Interahamwe, di cui facevano parte contadini poveri, giovani disoccupati, scolari, studenti, funzionari. Tre anni in cui il Governo pretese da prefetti e sottoprefetti liste nere con i nomi dei Tutsi da sterminare e di tutti gli Hutu che avrebbero potuto osteggiare il progetto: oppositori, sospetti, ambigui, incerti. Nessuna faida tribale, dunque, ma un freddo perfezionismo degno degli artefici dell’Olocausto nazista, con i vari Ferdinand Nahimana, Casimir Bizimungu, Leon Mugesira, Théoneste Bagosora, nei panni di Heydrich e di Goebbels, a codificare l’ideologia che avrebbe legittimato il genocidio come unica via d’uscita, come solo mezzo di sopravvivenza

Le superpotenze, però, già dopo 24 ore dai primi massacri, avevano compreso l’entità dell’apocalisse scatenatasi in Ruanda. Malgrado ciò, Washington vietò ai suoi rappresentanti l’uso del termine-G. G come genocidio. A Clinton bruciava ancora la batosta rimediata in Somalia e pur di non intervenire liquidò i massacri ruandesi come tribal resentment, scontri a sfondo tribale. Mitterand invece, che aveva armato e addestrato i carnefici, se ne uscì con una frase vergognosa che ancora oggi il mondo ricorda: “Un genocidio in Africa non è così terribile come altrove”.

Quello che trovo ancora più beffardo in tutta questa vicenda è che all’epoca, il capo del dipartimento per gli interventi di pace all’Onu era l’africano Kofi Annan. Quando il 21 aprile 1994 il genocidio ruandese toccò il suo picco più drammatico, Annan consigliò il ritiro dei caschi blu dal Ruanda, lasciando a Kigali solo 270 militari e abbandonando centinaia di migliaia di Tutsi al loro atroce destino. Fu la decisione più vergognosa nella storia delle Nazioni Unite. I caschi blu richiamati sul campo d’aviazione di Kigali si strapparono le mostrine dalle uniformi. Come soldati avevano perso l’onore. Grill incontrò anni dopo il generale Roméo Dallaire. Viveva dilaniato dai rimorsi, costretto ogni santo giorno a inghiottire decine di pillole per sedare gli attacchi di panico. ” Con la nostra inerzia – non faceva che ripetere – abbiamo reso possibile un genocidio”.

Se volete saperne di più attraverso la lettura vi consiglio Lezione sul Ruanda (da ‘Ebano’ di R.Kapuscinski, Feltrinelli), Il Genocidio negato (Da ‘Africa’ di B. Grill, Fandango), A colpi di machete, di Jean Hatzfeld, Bompiani, La memoria delle ossa, di Clea Koff, Sperling&Kupfer, e, soprattutto, Una domenica in piscina a Kigali, di Gil Courtemanche, Feltrinelli, che pur essendo un romanzo è l’opera che spiega meglio l’abominio ruandese. A mio parere, uno dei più grandi romanzi del novecento.

Se volete saperne di più attraverso il cinema, meglio ‘Shooting dogs’ di Caton-Jones che non Hotel Rwanda, il cui unico merito, secondo me, è quello di essere stato il primo film a parlare del genocidio ruandese. Ciò detto, i meriti finiscono qui e iniziano i demeriti. Più che parlare del genocidio ruandese il film usa il genocidio come sfondo per raccontare la storia vera di uno Schindler nero, Paul Rusesabagina, direttore di un hotel a 4 stelle della Sabena che nei giorni dei massacri salvò più di 1200 Tutsi dai machete degli Hutu. Quando però cerca di spiegare cosa accadde in quei giorni in Ruanda, e soprattutto perché, il film è lacunoso. Fa intuire che in Ruanda avvenne un’eruzione di violenza che ha pochi, pochissimi precedenti nella Storia – 800.000 mila vittime, forse un milione, massacrate in cento giorni in un piccolo paese dell’Africa che per dimensioni, equivale grosso modo a un terzo della Danimarca; 416 persone massacrate ogni ora, 7 persone ogni minuto, massacrate a colpi di machete, martelli, lance e bastoni, in una delle pagine più folli del ventesimo secolo, in una vera e propria catena di montaggio dell’orrore. Ma il film non è abbastanza esplicito, non approfondisce mai, e lascia troppe domande insolute. A questo aggiungiamo un protagonista come Don Cheadle, strepitoso per molti, ma troppo afro-americano per la parte – più che il direttore di un hotel ruandese sembra il manager di Beyonce – e una rappresentazione del genocidio troppo edulcorata. Il regista Terry George voleva che il film fosse visto soprattutto dai giovani, ma se avesse cercato di riprodurre anche una piccolissima parte di quei massacri il film sarebbe stato vietato ai minori. “Negli Stati Uniti – ammise – la combinazione della parola “Rwanda” nel titolo con un divieto ai minori avrebbe tenuto lontano il pubblico”. Perciò non mostra quasi nulla, il sangue è razionato, gli orrori si intuiscono, gli orrori affiorano a volte nei dialoghi dei protagonisti. Un esempio. Un operatore filma i massacri ma quando mostra il girato a un collega la macchina da presa non va in dettaglio, e quello che lo spettatore vede sono uomini che colpiscono con i machete qualcosa, ma cosa esattamente non si distingue. C’è solo una scena in cui l’orrore si tocca con mano. E’ notte. Paul ha lasciato l’Hotel per fare provviste. Uno dei capi degli Interahamwe, gli squadroni della morte Hutu, gli suggerisce di rientrare in Hotel passando per una via secondaria. “E’ la più sicura” – gli assicura sardonico. C’è nebbia, il furgone dell’hotel avanza a fatica, a un certo punto comincia a sobbalzare come se la strada fosse disseminata di dossi dissuasori. Il furgone ondeggia rischiosamente poi si ferma. Paul scende e per poco non perde l’equilibrio; la strada è lastricata di cadaveri: uomini, donne, bimbi, anziani, tutti massacrati e mutilati. ‘Shooting dogs’ è meno reticente, più esplicito, più crudo. E mostra le strade di Kigali per quel che erano in quei giorni. Un mattatoio a cielo aperto.

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